Cenni storici


L'origine del nome

Nei documenti normanni la località viene citata con i toponi di "Gibilmagne" e "Zibelmanno", tradizionalmente interpretati come corruzioni di Jubileo magno, in relazione con una festa in onore di San Gregorio Magno. Tuttavia l'utilizzo occidentale del termine "giubileo", di origine ebraica, sembra risalire ad un'epoca possteriore alle prime attestazioni del nome del santuario. Un'altra possibilità è nel riferimento piuttosto al termine latino jubilum ("gioia").Il nome sembra essere piuttosto di origine araba, dalle espressioni "Gebel-El-Man”, “Gibel-El-Mann” o “Gibel-El-Mannat”, “Gibel-El-Iman”, nelle quali il termine "gibel/gebel" significa "monte", mentre il secondo termine è stato interpretato come "divieto", oppure "manna".

"Monte dei divieto" potrebbe riferirsi alla fitta vegetazione che impediva il passaggio, o per la proibizione di pellegrinaggi al santuario cristiano da parte degli Arabi conquistatori. "Monte della manna" si riferirebbe invece alla presenza di frassini produttori di una sostanza vischiosa chiamata "manna", oppure, come "Monte della grazia" o "del dono divino", in riferimento proprio alla presenza del santuario. Infine un'ultima intepretazione indica il significato di "Monte della fede".

Le origini benedettine e il "priorato"

Secondo la tradizione quello di Gibilmanna era uno dei sei monasteri benedettini che San Gregorio Magno (540-604; pontefice dal 590) fece erigere a proprie spese, prima di essere eletto pontefice. La festa del giubileo di San Gregorio prevedeva infatti un pellegrinaggio al santurario e poi alle rovine di una chiesa distrutta che si riteneva l'originario oratorio edificato dal santo nel VI secolo.

Gli edifici conventuali dovettero andare in rovina nel IX secolo, in concomitanza con l'arrivo degli Arabi (858), mentre la piccola chiesa fu probabilmente in custodia di diversi eremiti. Con la conquista dei Normanni venne avviata una vasta opera di ricostruzione di monasteri ed edifici sacri. In un documento del 1178 viene nuovamente citata la chiesa. Nel 1228 la chiesa era divenuta un "priorato" e dunque non apperteneva più ai monaci benedettini. Nel 1279 il beneficio di “Santa Maria de Jubileo Magno” passò ad un frate agostiniano.

Nella prima metà del XVI secolo divenne priore il sacerdote Antonio Lo Duca, promotore della costruzione della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma.

Il convento dei Cappuccini

Negli anni 1530 erano stati già fondati in Sicilia diversi conventi per il nuovo ordine dei Cappuccini, appena costituito, (a Castronovo e a Vizzini nel 1533, a Enna, allora "Castrogiovanni" nel 1534): nel 1535 Padre Sebastiano Majo da Gratterio, uno dei primi seguaci della riforma cappuccina, si stabilì a Gibilmanna, ottenendo in tal modo la facoltà di rifondare la chiesa ed il convento. Venne costruito accanto alla vecchia cappella benedettina un primo edificio conventuale, con solo sei piccole celle costruite rozzamente.

Presso il convento sembra abitasse l'eremita Giuliano de Placia da Misilmeri, la cui cella secondo una versione sarebbe stata nel tronco di un castagno. Il suo nome si legge sul'iscrizione del piedistallo (“Julianus de Placia de terra Musumeri fieri me fecit” su un lato e sull'altro “fu fatto in tempore di Presti Miceli Senaturo Chapelano”) di una venerata statua della Madonna, attribuita nell'Ottocento a Antonello Gagini. Nel capitolo generale dell'ordine del 1574 i convento di Gibilmanna fu inserito nella provincia di Val di Demenna o Val Demone (Palermo), delle tre in cui fu allora suddivisa la Sicilia.

Nel 1619 veniva eletto "guardiano" del convento padre Sigismondo da Pollina, coadiuvato dal fratello Germano Urbano (al secolo Ottaviano e Vincenzo Minneci), e fu decisa l'erezione di una nuova chiesa al posto dell'antica cappella benedettina, insufficiente a contenere i pellegrini. La chiesa fu completata nel 1623 e riaperta al culto nel 1625. Questa fu allargata verso ovest e dotata di una sacrestia e di una scalinata di accesso. La facciata era preceduta da un portico.

Nella nuova chiesa fu trasferita la venerata immagine della Madonna con Bambino, un affresco in stile bizantino dell'antica cappella benedettina, che fu distaccato e inserito nel muro della cappella della Madonna. Furono inoltre trasferiti la statua della Vergine e un antico Crocefisso ancora di stile bizantino, collocato sulla parete laterale della stessa cappella e che secondo una pia leggenda avrebbe parlato ad uno dei padri guardiani del convento. Per l'altare maggiore venne realizzato un nuovo dipinto raffigurante l'Assunta. La vecchia cappella fu quindi definitivamente abbattuta.

Probabilmente negli stessi anni il convento fu considerevolmente ingrandito e migliorato. Rifacimenti e nuove costruzioni, anche a seguito dell'allargamento della comunità e alle esigenze di accoglimento dei pellegrini, si susseguirono fino a tempi recenti.

Nel 1785 venne sistemato l'altare per la cappella della Madonna, opera del palermitano Baldassarre Pampilonia, destinato ad una cappella della cattedrale di Palermo, ma non più messo in opera. L'altare comprende le statue in marmo di San Giovanni Battista, opera di Scipione Casella, e di Sant'Elena, opera di Fazio Gagini.

Il portico che prevedeva la chiesa crollò e la facciata della chiesa fu rifatta in stile neogotico nel 1907. Il sagrato fu ornato nel 1927 da un monumento dedicato a San Francesco (opera di Francesco Garufi su progetto dell'architetto Misuraca) al posto della precedente Croce in ferro.

Nel 1954 papa Pio XII dichiarò Maria Santissima di Gibilmanna patrona della diocesi e della città di Cefalù. Nel 1958 venne inaugurato nel convento il Seminario Serafico.

Ulteriori modifiche sono state apportate negli ultimi anni: la statua di San Francesco è stata trasportata nel lato destro del piazzale, i cortili interni sono stati ristrutturati, l’antica stalla trasformata in museo, mentre continuano i lavori per la creazione di una casa albergo per anziani, per l’allestimento dei laboratori di restauro e di un teatro ligneo.

Museo Fra Giammaria da Tusa

Il Museo, allestito nell'antica stalla del convento, appositamente ristrutturata, ospita manufatti propri della cultura francescana, paramenti e arredi sacri di pregio, donati, come segno di devozione, alla “Gran Signura” di Gibilmanna ed oggetti provenienti da altre culture.

La dedica delle dieci sale del museo

Il museo s’articola in dieci sale, ognuna delle quali è intitolata ad un frate o a un personaggio legati alla storia del convento.

Sala di San Francesco, fondatore dell'ordine Francescano da cui derivano i Cappuccini.

Sala di fra' Domenico da Isnello (1870-1932) che volle il monumento a San Francesco sul sagrato.

Sala di fra' Felice da Nicosia (1715-1787), beatificato nel 1888.

Sala di fra' Fortunato da Valledolmo (1873-1957), portinaio del santuario per più di cinquant'anni

Sala di fra' Antonio da Bronte (1681-1762), considerato autore di miracoli e sepolto nel duomo di Cefalù

Sala di padre Sebastiano da Gratteri (1504-1580), fondatore del convento cappuccino

Sala di San Gregorio Magno, fondatore del primo convento benedettino

Sala dei frati Urbano (morto nel 1629) e Sigismondo (morto nel 1651) da Pollina, alla cui opera si deve l'edificazione della chiesa

Sala di fra' Ivone da Messina (morto nel 1572), al quale secondo una pia leggenda avrebbe parlato il Crocifisso della chiesa

Sala di fra' Gaetano da Castanea (1843-1929), missionario cappuccino in Brasile.

Il Patrimonio Museale

La raccolta degli oggetti e la loro esposizione sono guidati da concezioni legate alla fede cristiana e alla spiritualità del convento: gli oggetti presenti nel museo, prima ancora di essere osservati e letti quali mediazioni di segni e simboli ed espressioni artistiche, dovrebbero essere colti quali frutto del lavoro di un uomo che li ha pensati e plasmati con quelle mani che a loro volta furono plasmate da Dio stesso e che rendono santo ogni suo “fare”. In questo senso il lavoro dell’uomo, inteso come partecipazione all’azione creatrice di Dio è dono e richiede d’essere compreso come pratica ascetica e, nello stesso tempo, per la fatica che l’accompagna, come occasione di penitenza. L’autosufficienza e ll’autonomia del convento erano garantiti dalle attività agricole ed artigianali dei frati stessi, i cui prodotti sono ben visibili in questo museo. Gli stessi frati, infatti, si sono curati di realizzare quanto era necessario per gli usi liturgici, dalle suppellettili agli arredi, ai paramenti, alle stesse strutture architettoniche sacre.

Tra gli arredi sacri, sono presenti paramenti, tra cui molte pianete con o senza stola, nonché una ricca tipologia di vasi e oggetti sacri, che coprono un arco di tempo dal XVII al XIX secolo.

Una vetrina della settima sala contiene una completa campionatura di suppellettili d’altare e un coordinato di paramenti: nell'ordine della vestizione questi sono costituiti da amitto, camice, cingolo, piviale e pianeta per il sacerdote o dalmatica per il diacono, stola e manipolo e, infine, in relazione all’azione sacra, il velo del calice. I paramenti sono realizzati in tessuti preziosi e ricamati, soprattutto con punto pittura e vari tipi di punti a rilievo, particolarmente raffinati e pregiati, adatti a rendere visibili, anche da una certa distanza, le decorazioni e a sottolineare la solennità dei paramenti stessi. I motivi raffigurano con segni e simboli, realtà trascendenti, evocando significati e figure propri delle verità di fede: accanto a motivi floreali più o meno stilizzati, troviamo stemmi francescani, la Madonna Assunta, la Madonna di Gibilmanna e tutta una vasta gamma di motivi attinti dalla vita dei campi ed assunti a simboli eucaristici. Tra le suppellettili dell'altare sono presentati nella vetrina il calice, la pisside, la patena (oggetti del sacrificio eucaristico), l’ostensorio, il crocifisso, i candelabri, il campanello, la navicella ed il turibolo, tutti di manifattura siciliana, realizzati in argento o in argento dorato, impreziositi da figure simboliche a sbalzo e a tutto tondo.

Il museo conserva inoltre diversi dipinti, alcuni dei quali raffigurano i personaggi che hanno fatto la storia di Gibilmanna o dell'ordine dei Cappuccini (tra cui un olio su tela del pittore Ludovico Suriek con La visione di fra' Felice da Cantalice che raffigura il primo santo dell'ordine), mentre in altri si trovano anche temi cari alla devozione dell’ordine stesso e cioè all’unione con Dio, alla Passione di Cristo e alla devozione della Vergine (lla Vergine che porge Gesù Bambino a santi appartenenti all'ordine, la Flagellazione).

Il museo custodisce anche preziosi lavori di legno intarsiato ed intagliato: dai candelieri settecenteschi ed ottocenteschi di fattura cappuccina, a due statue in legno policromo del Seicento, raffiguranti la Madonna e San Giuseppe, entrambi in adorazione, che facevano parte probabilmente di un presepe. Non mancano alcuni esemplari di opere in cera del tardo Settecento, una tecnica diffusa nella Val Demone.

Si citano ancora una statua marmorea della Pietà del cefaludese Jacopo del Duca (1522-1604), e un raro organo a canne palustri del Seicento.

La sezione etno-antropologica raccoglie inoltre numerosi semplici oggetti d'uso comune, prodotti artigianali degli stessi frati che hanno vissuto di questua e in povertà secondo la regola cappuccina.

Tra gli utensili appartenenti al mondo agricolo, troviamo quelli per la coltivazione del frumento (vanghe, zappe, falci, l’aratro col vomere, il tridente in legno per separare il frumento dalla pula, una piccola macina in pietra, “u rrutuni” per trasportare la paglia) o per la produzione di olio e vino (giare in terracotta, la scala per raccogliere le olive dai rami più alti degli alberi ed il bastone “vrianti” per percuoterne le frondi e far cadere i frutti; otri per trasportare il mosto, i tini per il travaso e le botti per la conservazione e la maturazione ) e, di particolare interesse, gli utensili necessari per la raccolta della manna dal frassino (“mannaruolu”, coltello affilatissimo per incidere la corteccia, “l’archettu”, strumento per staccare il “cannuolu” cioè la manna che solidifica formando una specie di stalattite; la “rràsula”, paletta per raschiare la manna in rottame dal tronco; la “scatola”, recipiente per raccoglierla).

Altri oggetti, come i setacci per la farina, la madia per impastare, i rastrelli e le pale di legno per ravvivare il fuoco ed infornare il pane, ci riconducono alla tradizione della panificazione con i forni a legna, universalmente presentii almeno sino alla seconda guerra mondiale. Alltri oggetti sono quelli legati alle attività domestiche, soprattutto femminili, come telai, il fuso, l’arcolaio, nonché alcune tele già ricamate, oltre a pentole di rame e di terracotta, anfore per l’acqua, padelle, mestoli, scolapasta in rame, mortai in pietra e in legno, tostacaffé e macinacaffè. A questi si aggiungono alcuni strumenti propri all’universo conventuale quali le presse di varia misura e le taglierine per la stampa, nonché l’ostiario per la preparazione delle ostie.

Sono ancora presenti diversi strumenti di lavoro tipici delle più fiorenti attività artigianali madonite (falegname, calzolaio, fabbro, del quale è stato ricostruito il laboratorio) e un carretto: costruito secondo le tecniche adoperate dalle maestranze locali, con ricche decorazioni intagliate e dipinte sui raggi delle ruote e sull’asse.

La biblioteca-archivio annessa al museo custodisce incunaboli, cinquecentini (tra cui la prima edizione del 1558 del De Rebus Siculis di Tommaso Fazello), testi del Seicento (tra cui L’Atlante geografico e descrittivo-storico della presenza francescano-cappuccina nel mondo) e del Settecento. I documenti conservati nell'archivio, che vanno dal XVI secolo ai nostri giorni, permettono di ricostruire la storia del convento e del santuario, ma anche nel contesto del territorio, della diocesi di Cefalù e della Sicilia Tra i manoscritti possono citarsi la Breve cronistoria del divoto Convento di Gibilmanna (1696-1701) e il Breve ragguaglio del Convento cappuccino di Gibilmanna anno 1741, entrambi anonimi, con la continuazione fino all’anno 1753 ad opera di Padre Illuminato da Capizzi.

 

 


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